Il momento della rivelazione 

Ventitre storie di architetti che raccontano il proprio esordio attraverso la loro opera prima.

 

Era l’estate del 1997 durante un periodo di lavoro presso uno studio a Venezia, dove avevo deciso di rimanere dopo la laurea per effettuare una prima esperienza professionale e mantenere un legame con l’università, quando si presentò la prima possibilità di ottenere un incarico per un progetto. Il percorso professionale e personale appena impostato, fu quindi messo prematuramente in crisi. Il direttore del Museo Ladin de Fascia, che conoscevo avendo effettuato alcune ricerche sull’architettura ladina durante il corso degli studi, mi aveva comunicato che era in fase di realizzazione la nuova sede del museo. La Provincia di Trento aveva infatti avviato i lavori di ristrutturazione di un edificio, una vecchia caserma militare, che sarebbe diventato il nuovo Museo Ladin in sostituzione di quello ospitato nella sede precedente. Per il progetto di allestimento era stato contattato Ettore Sottsass Junior che in virtù delle sue origini «ladine», si era offerto di proporre un concetto progettuale gratuitamente. Aveva però richiesto la collaborazione di un giovane «side architect» che potesse seguire più nel dettaglio il progetto, stando in loco e sviluppando le tematiche definite nell’impostazione scientifica e culturale del museo. Ecco quindi che la prospettiva di quella opportunità, pur non avendo in realtà nessuna certezza di ottenere l’incarico, mi fece riflettere profondamente. Il dubbio consisteva nel capire se fosse preferibile rimanere a Venezia, città al cui fascino mi ero ormai abituato da una decina di anni, dove però le prospettive lavorative erano quelle di rimanere legato ad uno studio come collaboratore, oppure ritornare nelle terre di origine dove era forse più facile cogliere alcune opportunità per avviare un’attività professionale autonoma. A questo si aggiungeva anche il timore di interrompere l’attività di collaborazione alla didattica nel corso di urbanistica di Bernardo Secchi, docente con cui mi ero laureato e dal quale era effettivamente difficile allontanarsi. Non era quindi facile pensare di tagliare questo cordone ombelicale che mi legava sia alla città che all’università di Venezia.

Ragionando insieme a Lorenzo, con cui avevo condiviso tutto il percorso di studi costruendo una sintonia a cui non volevo rinunciare, ma che essendo rientrato da poco ad Egna si ritrovava con i miei stessi dubbi, decidemmo di aprire uno studio e di trasferirci «momentaneamente» in Val di Fassa a poco più di un chilometro dal museo. Iniziò così un’avventura, da una scelta non pianificata ma dal semplice «accadere delle cose», seguendo istintivamente una strada che sembrava essere a nostra misura e che sentivamo di voler percorrere.

Avviata l’attività dello studio ottenemmo fortunatamente l’incarico per l’allestimento del Museo Ladin, avendo l’opportunità di partecipare alla definizione concettuale del museo oltre ad immaginarne i supporti fisici e grafici. Parallelamente alla definizione degli spazi espositivi dove dovevamo applicare ed interpretare l’espositore ideato da Sottsass, vi era la necessità di definire gli spazi dell’ingresso. Il cantiere stava per terminare e quindi le eventuali modifiche dovevano essere definite urgentemente. La soluzione progettata da Sottsass per la porta d’ingresso, a nostro avviso non evidenziava sufficientemente lo spazio di accesso al museo rispetto alle caratteristiche dell’immobile e degli spazi di accesso. Dopo aver quindi definito una nostra proposta progettuale alternativa, che consisteva nella realizzazione di una «bussola» d’ingresso posta tra interno ed esterno con il ruolo di filtro ma allo stesso tempo anche di segnale, ci recammo al nostro primo incontro con il «maestro» nello storico studio di via Melone in zona Brera a Milano. Non era infatti facile presentarsi per la prima volta, con l’incoscienza che forse solo i giovani hanno, con una proposta alternativa a quanto già progettato da una importante figura dell’architettura italiana. Seduto al suo tavolo, accanto alla foto del padre appesa al muro, Sottsass ci accolse ed osservò con curiosità le nostre proposte. La sua reazione ci sorprese: «bene, funziona, molto meglio così, anch’io ho fatto una cosa simile in un progetto». Ebbe così inizio il progetto che ci portò a realizzare la nostra prima opera, l’ingresso del nuovo Museo Ladino e l’allestimento del percorso espositivo, con la supervisione e collaborazione di un importante architetto, che esprimendo un’umanità ed una cortesia che solo i grandi possono avere ci trattò da pari.

 

Questo fu il nostro «outing», la nostra rivelazione come architetti, la prima occasione di esporci al pubblico, di metterci alla prova e dimostrare le nostre capacità. Ogni opera prima corrisponde infatti per un architetto ad un momento di passaggio. Da un lato ci offre l’emozione di vedere per la prima volta la concretizzazione fisica delle nostre idee ma allo stesso tempo, nel momento in cui quel progetto si realizza, diventa patrimonio comune. Le nostre opere sono «visibili», esposte al giudizio del pubblico o di chi le vive. Questo è il senso del numero di Turris Babel che avete tra le mani. Raccontare le storie di chi ha recentemente vissuto questo importante passaggio che ha costituito per molti una svolta. Lo abbiamo fatto cercando di focalizzare l’attenzione non solamente sulle opere ma anche sulle persone, sugli architetti, ritratti da Jasmine Deporta in un limbo cromatico che cristallizza questo momento.

Abbiamo così chiesto agli architetti altoatesini di inviarci la propria opera prima realizzata negli ultimi cinque anni. Quelle selezionate sono quindi le opere di esordio più significative, indipendentemente dalla loro dimensione o rilevanza, che ci permettono di sfuggire dalla categoria «giovani» poco sensata per gli architetti. Vi sono infatti neolaureati che hanno intrapreso subito una propria attività professionale, chi invece lo ha fatto dopo una breve esperienza lavorativa, chi ancora dopo un periodo più lungo di lavoro dipendente. 

Guardando i progetti, ed allo stesso tempo i volti dei colleghi presentati in questo numero possiamo rivivere il fascino ed allo stesso tempo il timore di vedere realizzate le proprie idee, di entrare in uno spazio nato da un segno tracciato con le nostre mani, di sperimentare la luce, le forme ed i colori a cui per molto tempo abbiamo dedicato i nostri pensieri. Di sperimentare quindi l’architettura che noi stessi abbiamo progettato, un privilegio che, nonostante le numerose difficoltà la nostra professione non smette di offrirci.

 

 Alberto Winterle _Editoriale TURRIS BABEL 102_ 07|2016