Le opere di Othmar Barth (1927–2010), così come il suo contributo teorico e culturale di architetto e di docente, sono considerate patrimonio comune da parte della comunità degli architetti sudtirolesi e nelle provincie e regioni limitrofe. La stima e il rispetto derivano dalla profonda ricerca sviluppata attraverso i suoi progetti, diventati un fondamentale riferimento per l’evoluzione del linguaggio architettonico contemporaneo nella Provincia di Bolzano. La capacità ed il coraggio di introdurre in un contesto alpino provinciale segni di rigorosa modernità, dove lo stretto rapporto tra forma, struttura e luogo definisce il senso profondo del progetto, offre ancora oggi una concreta lezione da cui possiamo trarre spunto e imparare. Questo vale sia per le opere realizzate che per i molti studi di fattibilità rimasti su carta.
Nella sua pubblicazione autobiografica (Othmar Barth, Verlag Anton Pustet, Salzburg 2007), che rappresenta una sorta di testamento, Othmar Barth ricostruisce in modo chiaro la nascita della sua sensibilità e della sua passione per l’architettura, così come le opportunità che è riuscito a cogliere sia durante la fase della formazione che negli anni di svolgimento della professione.
Cresciuto a Bressanone, luogo periferico ma «città di artigiani», ebbe la possibilità di fare apprendistato nella falegnameria di famiglia dove sviluppò la propria sensibilità per la materia e la manualità. Dopo gli studi all’università di Graz svolse alcuni anni di pratica nello studio dell’architetto Weyhenmeyer a Bolzano dove comprese «l’importanza dell’urbanistica nell’attività di un architetto». Fondamentali furono inoltre gli anni passati a Roma lavorando presso lo studio di Vitellozzi, entrando a far parte dell’ufficio di progettazione dello stadio Olimpico e seguendo le lezioni di Pier Luigi Nervi dove poté respirare l’eccitante clima del fertile momento di costruzione di importanti esempi di architetture diventati riferimento a livello internazionale.
Rientrato in provincia di Bolzano, nella fase di ricostruzione postbellica, visse quello che potremmo definire un momento eroico dell’architettura contraddistinto da un particolare fermento costruttivo. Notevoli, infatti, erano gli investimenti pubblici e privati, dedicati alla costruzione di nuove abitazioni o di impianti industriali, dove anche la chiesa svolgeva il ruolo di importante committente illuminato.
Operando quindi prevalentemente nei propri territori di origine, Barth sviluppò attraverso i suoi lavori e progetti la sua particolare sensibilità per le forme, per il ruolo della luce nello spazio e soprattutto poté confrontarsi e misurarsi con il particolare contesto storico e paesaggistico sud-
tirolese riuscendo a farlo diventare parte integrante delle sue opere.
L’attività professionale fu affiancata da un altrettanto importante ruolo di docenza nella facoltà di architettura dell’Università di Innsbruck, dove fin dalla sua fondazione diventò uno dei principali punti di riferimento nei corsi di progettazione. La sua capacità di unire visioni appartenenti ai due diversi orizzonti culturali, tedesco e italiano, lo portò a sviluppare una personale e profonda sensibilità e capacità di indagare e insegnare l’architettura, assumendosi quindi una fondamentale responsabilità nella formazione di molti futuri architetti.
Se però da una parte le opere di Othmar Barth riescono a riscuotere un consenso unanime e quindi a unire le opinioni generali sulla sua eredità, dall’altra la valutazione dei recenti interventi di trasformazione o rifunzionalizzazione dei suo edifici rischia invece di dividere i pareri, talvolta anche in modo deciso e polemico, dato che alcuni esempi sono ritenuti poco rispettosi o incoerenti in relazione alla soluzione progettuale originaria. Per questi motivi abbiamo deciso di indagare alcuni recenti interventi sulle opere di Othmar Barth, per ragionare, discutere e confrontarci con la sua eredità con un atteggiamento che non prende acriticamente in considerazione solamente la «sacralità» delle sue architetture, ma che cerca invece di comprendere ed interpretare i suoi atteggiamenti progettuali, e quindi anche quelli dei colleghi che si sono confrontati con il suo lavoro.
Per mantenere una sorta di distanza di rispetto tra l’opera originaria e le sue trasformazioni, i materiali sono organizzati in due diversi numeri della rivista: «riscoprire» e «ridisegnare Othmar Barth». Il primo prende spunto dalla mostra e relativa pubblicazione «rivedere Barth» che come redazione abbiamo realizzato nel 2010 in occasione della sua morte. Per quel progetto abbiamo invitato tredici fotografi a riguardare e riscoprire con gli occhi e gli obiettivi di quel preciso momento lo stato delle opere di Barth. Senza dare particolari indicazioni abbiamo lasciato alla libertà creativa dei fotografi la possibilità di scegliere l’opera e di leggerne gli aspetti ritenuti più interessanti. Il risultato del lavoro è raccolto in un volume che costituisce un’edizione speciale di Turris Babel, ed è stato inoltre presentato in una mostra ospitata a gennaio del 2011 al piano terra del Museion. Delle diciassette architetture rilette nel libro ne abbiamo scelte solamente cinque a cui abbiamo aggiunto un ulteriore lavoro, opere scelte in relazione ai recenti interventi di trasformazione che presenteremo quindi nel secondo numero «ridisegnare Othmar Barth». Oltre ai materiali dei fotografi, potendo accedere al ricco e fertile «fondo Othmar Barth» presso l’Archivio provinciale di Bolzano, abbiamo selezionato materiali inediti relativi ai progetti realizzati ma anche alle prime ipotesi progettuali. Aver potuto sfogliare molti disegni, su supporto lucido e cartaceo, vedere immagini di cantiere e documenti di lavoro, toccare e guardare da vicino un’innumerevole serie di plastici, ci ha confermato ulteriormente la convinzione che è necessaria ed opportuna un’indagine più approfondita e sistematica del lavoro di Othmar Barth. Questo nostro contributo può essere considerato solamente un invito e uno spunto utile a comprendere i lavori selezionati, lasciando volutamente una sorta di suspense tra la visione dell’opera originale e ciò che ne è stato.
Mentre stavamo lavorando a questo numero, è giunta la triste notizia della prematura scomparsa del nostro collega e amico Carlo Azzolini. Dal 2011 al 2015 Carlo è stato Presidente della Fondazione Architettura Alto Adige, rappresentando quindi l’editore di questa rivista, ma il suo impegno per la cultura architettonica, la storia dei nostri territori ed il ruolo sociale e politico dell’architetto ha caratterizzato tutto il corso della sua vita. La sua profonda conoscenza delle vicende urbanistiche e architettoniche della città di Bolzano e dell’intera Provincia lo aveva trasformato in una sorta di insostituibile memoria storica che trasmetteva e comunicava con numerose visite guidate o curando ricerche come la recente mostra «Soldati, Turisti, Viaggiatori» ed il relativo numero di Turris Babel. Oltre che uno stimato architetto, Carlo è stato per noi una figura di riferimento, persona gentile, sensibile e colta con cui ci siamo confrontati in molte occasioni. Insieme ai colleghi dell’Ordine, della Fondazione e della Redazione ho avuto il piacere di apprezzare la sua curiosità e la sua passione, condividendo importanti momenti di lavoro ed anche di semplice convivialità, portando a termine stimolanti progetti e iniziative o discutendo dei temi più vari seduti davanti ad un bicchiere. Non dimenticherò le molte visite effettuate insieme a lui a Roma, cogliendo l’opportunità delle Conferenze del Consiglio Nazionale, sostando in silenzio davanti al trittico pittorico su San Matteo del Caravaggio a San Luigi dei Francesi, o girando di buon mattino quasi furtivamente tra gli edifici dell’Università della Sapienza come due giovani studenti di architettura.
Carlo ci mancherai, faremo tesoro del tuo insegnamento, della tua passione e della tua umanità.
Alberto Winterle _Editoriale TURRIS BABEL 120_ 12|2020