Paesaggi fragili

Vi sono momenti, come quelli che stiamo vivendo oggi, che mettono in evidenza tutta la nostra fragilità e anche quella del contesto in cui viviamo. Una crisi del sistema globale ci ha reso consapevoli che alla velocità di connessione dei contatti e al dinamismo delle economie corrisponde un’esposizione di tutte le comunità alla diffusione non solo degli effetti positivi ma anche a quelli negativi della globalizzazione. Allo stesso tempo abbiamo registrato evidenti segnali del labile equilibrio su cui si reggono le ecologie del nostro mondo naturale e di quello costruito. La diffusione generalizzata di un virus ha messo in crisi un modello di vita e di sviluppo che ha sempre cercato e favorito gli scambi e le relazioni tra le persone, imponendo ora una drastica inversione radicalmente anti-urbana di «distanziamento sociale». Gli effetti dei cambiamenti climatici evidenziano inoltre quanto siano limitate le risorse naturali e vitali. Anche eventi, pur contenuti e locali come la recente tempesta «Vaia» , stravolgendo alcune porzioni di territorio che noi avevamo considerato immuni e perenni, ci mettono di fronte a scenari nuovi ed inaspettati. La drammaticità degli eventi ci impone quindi di ripensare le nostre vite e di rivedere le priorità fino ad ora consolidate. Superata l’emergenza sanitaria, o quantomeno sperando che si possa superare, sarà quindi tempo di esplorare l’inedito anche ripensando i nostri spazi di vita, da quelli domestici in cui siamo stati costretti a rinchiuderci, a quelli del lavoro, da quelli privati a quelli collettivi. Con lo stesso atteggiamento dovremmo ridefinire una diversa relazione tra noi e l’ambiente che ci ospita, avendo chiaro in mente che gli aspetti sanitari, economici ed ambientali sono strettamente connessi e che non potranno essere considerati singolarmente. 

Difficile quindi ripartire a ragionare sugli effetti del nostro operato, anche se riteniamo che il ruolo dell’architettura e più in generale il ruolo di chi governa e progetta la trasformazione dei territori sia un fattore di vitale importanza e responsabilità. Ripartiamo quindi dall’inizio, dagli interventi più delicati e reversibili come possono essere quelli di un’installazione artistica realizzata nella natura. Sono questi interventi minimali e limitati ma capaci di stimolare reazioni e pensieri relativi al nostro rapporto con il contesto in cui viviamo. Per questo richiamo un’immagine, a cui sono personalmente molto affezionato e che corrisponde a mio parere al grado zero della trasformazione del paesaggio: l’opera «a line made by walking» di Richard Long del 1967. Si tratta di una semplice linea realizzata calpestando l’erba, azione che in poco tempo sarà quindi cancellata dalla natura che velocemente riprenderà il sopravvento. L’immagine, scattata per «fissare» tale intervento artistico, ci pone di fronte alla responsabilità che ogni singola azione, volontaria o involontaria, comporta nel momento in cui trasformiamo un luogo. Siamo infatti attori consapevoli ed attivi e dobbiamo quindi avere coscienza di ogni nostra singola azione. 

Ripartiamo quindi da qui, dalle opere realizzate nel paesaggio da numerosi artisti nella nostra regione. Opere, performance, architetture del paesaggio che si misurano con la relatività del tempo. Si tratta infatti di opere realizzate per eventi artistici temporanei o anche permanenti, trasformazioni reversibili dove è insito nel concetto stesso dell’opera che l’esposizione agli eventi naturali condizionerà inequivocabilmente la sua durata. 

La relatività nostra e di ciò che produciamo sarà in futuro un nuovo filtro attraverso cui vedere le cose.

Riflettendo attorno alla consapevolezza della nostra stessa precarietà, ricordiamo inoltre la recente scomparsa di Christoph Mayr Fingerle, un caro collega e amico che ha avuto un ruolo fondamentale nella diffusione della cultura architettonica contemporanea in Sudtirolo e che ha evidenziato ed esercitato il ruolo politico e culturale dell’architettura.

Alberto Winterle _Editoriale TURRIS BABEL 117_ 05|2020